Endre Erno Friedmann, un nome che non molti conosceranno. Ma se vi diciamo Robert Capa (nome d’arte) la scintilla si accende. Qualche immagine emerge davanti agli occhi. Un miliziano colpito a morte nella guerra civile spagnola, un contadino siciliano che indica ad un soldato americano la via di fuga presa dai tedeschi, militari immersi nelle acque gelide durante lo sbarco in Normandia.

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Molte sono le fotografie di guerra scattate da Capa che fanno parte del nostro immaginario.

Nella mostra al Museo Diocesano di Milano ne sono raccolte più di trecento e ci accompagnano in tutto il suo percorso di vita, tra i cinque conflitti documentati in prima persona, dalla già citata Civile Spagnola alla Seconda guerra mondiale, da quella Arabo-israeliana alla Prima guerra di Indocina fino, letteralmente, all’ultima foto scattata da Capa pochi minuti prima di morire per un passo fatale su una mina antiuomo, mentre è alla ricerca di quello scatto abbastanza vicino agli eventi della Storia da permettere una fedele documentazione della realtà, cifra stilistica di tutto il suo lavoro. 

Ma Capa non è solo un fotografo di guerra, “io sogno di essere un fotografo di pace” diceva.

E tra un conflitto e un altro, ci sono scatti di pura normalità, ripresi con la straordinaria capacità di cogliere, attraverso un altro punto di vista, le storie di tutti i giorni: vediamo il Tour de France con gli occhi di chi lo guarda, magari colti di schiena in un abbraccio, o seduti in un prato in attesa, o momenti della vita quotidiana parigina, o ancora i tavolini di un bar tra le macerie a Berlino, con le persone che si riprendono la vita.                                            

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 Indubbiamente il repertorio di guerra prevale, con la consapevolezza, dice Capa, che non è facile essere testimoni “senza poter fare nulla se non registrare la sofferenza intorno a sé”; camminare tra quegli scatti ci immerge dentro la nostra bellicosa contemporaneità. Ci viene da chiederci se davvero la storia è maestra di vita. I soldati con divise differenti, in guerre differenti, a noi sembrano solo uomini, con paure, ferite, vittorie. Gli occhi dei bambini o delle donne o dei prigionieri in qualsiasi parte del mondo siano, ci paiono gli stessi che vediamo sui quotidiani.

Ci sembra che questo traspaia dal lavoro dello stesso Capa. Anche nello sguardo del soldato “nemico” emerge sempre e comunque l’uomo, perché il fotografo cerca, dentro il dramma, di cogliere i sentimenti e le emozioni dei volti che ritrae.

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Una chiave di lettura potremmo trovarla nelle parole dello scrittore lituano Roman Gary, che ha combattuto nella Seconda guerra mondiale, vedendone gli orrori ma con un giudizio lucido di fondo:

Si dice che la cosa più tremenda del nazismo sia il suo lato disumano. Si. Ma ci si deve arrendere all’evidenza: questo lato disumano fa parte dell’umano. Fintantoché non si riconoscerà che la disumanità è cosa umana, si resterà in una pietosa bugia (…)
Non odiavo più i tedeschi. Quattro anni dopo la disfatta quello che avevo visto attorno a me mi rendeva difficile il trantran di ridurre la Germania ai suoi crimini e la Francia ai suoi eroi. Avevo fatto l’apprendistato di una fraternità molto diversa da quei radiosi luoghi comuni: mi sembrava che fossimo indissolubilmente legati da ciò che rendeva diversi gli uni dagli altri, ma che poteva capovolgersi in qualsiasi momento per renderci crudelmente simili. Arrivavo addirittura a credere che nella lotta a cui prendevo parte, aiutassi i nostri nemici, pure loro
” (Gli aquiloni, 1980)

È questo sguardo umano sull’uomo che vorremmo ricordarci.

Per visitare la mostra trovate qui tutte le indicazioni.

 

Le fotografie presenti in questo articolo sono © Robert Capa.