Che cosa sarebbe diventato se non avesse fatto il designer?

Sarei stato un perfetto pentito. Ancora oggi (87 anni al momento dell’intervista N.d.R.) io sono fatto di aria, colore e ripensamenti. Non sono mai sicuro di nulla.

Una cornice irregolare, un grande volto che si affaccia dalla finestra in un interno su una sedia su cui è seduta una strana figura con becco. L’opera è l’Annunciazione di Alberto Savinio. Chissà come saremmo stati noi se avessimo trascorso la nostra infanzia sotto quello straniante sguardo di angelo, in una casa completamente tappezzata di opere d’arte, dal pavimento al soffitto. Da qui forse ha origine quello sguardo ironico, giocoso, prolifico di Alessandro Mendini, designer milanese morto nel 2019 e sul quale, in questi mesi, è stata allestita un’ importante mostra retrospettiva in Triennale a Milano.
Non vogliamo raccontare il lungo percorso di una vita, prolifica e densa di progetti e avventure ma ci siamo chiesti perché, nonostante non si sia né conoscitori né particolarmente appassionati di design, attraversare quelle sale riccamente allestite, riempia di energia e di desiderio di approfondire.

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Sarà la luce che cade dalle belle finestre della Triennale, dando risalto all’allestimento, saranno le forme fantastiche, i colori accesi, le dimensioni di oggetti che vanno dal grande al piccolo in un gioco espositivo che ci catapulta in un mondo immaginativo sorprendente. Si entra con allegria tra scarpe giganti, mani giganti, sedie piccolissime, autoritratti spiazzanti e ironici, a volte provocatori, tra cavalieri che ricalcano i modelli di Durer, ricoperti di mosaico colorato. E ancora dipinti, mobili, sculture con facce buffe, vasi e oggetti, che molti di noi conoscono, progettati per Alessi in una fortunata collaborazione. E poi sedie, poltrone, interi allestimenti di stanze, e copertine di riviste di cui Mendini è stato direttore.


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A noi quello che è piaciuto più di tutto, è una grande parete ricoperta di fogli normalissimi, pieni di schizzi di progetti, disegnati a penna o a matita che è solo una piccola parte del suo archivio. Forse perché è sempre l’uomo che ci interessa alla fine, più di ogni altra cosa e quella scintilla creativa che mette in moto tutto.
I fogli sono ricchi di appunti, disegni e domande; “Dove si trova l’essenziale?” “Forse l’essenziale si trova nel viso delle persone?” “Da dove arrivano le immagini nella fantasia?”
La spontaneità del segno su quei fogli ricorda quella dei bambini e per l’appunto Mendini di sé stesso dice “la mia infanzia è durata moltissimo e non so nemmeno se sia finita”.

                                              

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Tutta la sua vasta e versatile produzione ci sembra una ricerca continua, una volta dato credito a quell’infinita scintilla che affonda le radici nella casa incantata dell’infanzia; mettendo sempre in discussione prima di tutto se stesso e il proprio lavoro, alla ricerca di un’identità che sfugge dalle mani ma che proprio pèr questo apre a infinite possibilità.
Una ricerca che approda ad una domanda di verità:  “la verità è una specie di flusso sotterraneo pressochè irraggiungibile, che poi forse è una cosa molto semplice, cioè è la ricerca del bello”.

La mostra Io sono un drago, la vera storia di Alessandro Mendini è visitabile fino al 13 ottobre, in Triennale Milano, e noi ve la consigliamo!