Tutte le opere che Michelangelo fece sono così angosciosamente oppresse che paiono volersi spezzare da sole. Quando divenne vecchio, giunse a spezzarle davvero. L’arte non lo appagava più. Voleva l’infinito. (Auguste Rodin)
Ma sono solo delle copie, non sono interessanti!
Potrebbe essere questo il pensiero che affiora nel visitare la mostra allestita a Palazzo Reale di Milano che presenta in un solo colpo d’occhio le tre Pietà di Michelangelo, nella suggestiva cornice della Sala delle Cariatidi.
È vero, sono calchi, non sono originali, ma sono fatti a regola d’arte e possono essere infine considerati vere e proprie opere, con una loro storia, una loro importanza e un loro compito preciso.
Intanto, entrando, se si lascia il pregiudizio a casa, veniamo accolti da una scenografia che commuove: musica e immagini storiche dei vari restauri subiti scorrono su lenzuola bianche come sudari su cui si stagliano le tre sculture.
Vorremmo mettere in ordine le idee, al di là del coinvolgimento immediato, anche emotivo, in cui ci si sente immersi varcando la soglia della sala.
Perché non si rimane indifferenti?
Perché è un’esperienza vera e propria. Si ha l’impressione di incontrare l’artista, l’uomo, attraverso l’esplorazione del tema a lui più caro, che lo ha attraversato nell’arco di cinquant’anni: la Pietà e il dolore di una madre per la morte del Figlio.
La prima, la Vaticana, ci appare perfetta, liscia, stilisticamente impeccabile e quindi bellissima, con la sua firma bene in vista, scolpita per la paura di non essere riconosciuto. Ha poco più che vent’anni allora Michelangelo, un ragazzo, che porta perfettamente a compimento una commissione assegnata.
La seconda, la Pietà Bandini di Firenze, ci trasmette già un travaglio. Michelangelo, anziano, non la fa per commissione, inizia a lavorarci per sé, perché in tutti quegli anni il tema gli è sempre ritornato, ed ha spesso meditato sulla fede, sulla passione di Cristo e sulla morte. Lavora, il marmo non è quello giusto, è troppo duro, pieno di impurità, una notte prende il martello e inizia a distruggere fino a rompere un arto al Cristo. Non la completa, verrà aggiunta una figura da un allievo, di fattura discutibile e sproporzionata.
La terza, la Pietà Rondanini, su cui l’artista ha lavorato poco prima di morire, della quale possiamo vedere l’originale al Castello Sforzesco, è quello che ci commuove di più. Abbozzata, non finita (ma ne siamo certi? Si parla infatti di “sublime non finito”), trasmette tutto il dramma di una madre che sostiene il corpo senza vita del figlio e allo stesso modo il dramma dell’uomo/artista che ormai anziano sta per morire. E infatti sarà l’ultima opera ritrovata nel suo studio.
Ora, possono dei calchi, delle copie trasmettere tutto questo?
Sì. Sì, perché questo lavoro sapiente di artigiani, questa cura nel dettaglio e nel non lasciare perso nemmeno un graffio originale fatto dall’artista ha qualcosa della cura che si mette nell’accudire un figlio o una persona cara. I calchi ci sembrano accudimenti dell’opera prima. Che ci permettono di avvicinarci ad essa (cosa impossibile se no per tanti motivi), di guardarla da vicino, a tutto tondo, di girarci intorno, di immaginarci ogni gesto di chi le ha scolpite. Non tradiscono l’anima dell’opera, ma ce la consegnano in un altro modo. Sta a noi tenere gli occhi aperti, lasciarci sorprendere e interrogare e saper guardare: la conseguenza, per quel che ci riguarda, è stata aver voglia di approfondire la figura di Michelangelo, dell’uomo e del suo percorso. E di guardare con occhi più attenti cose che pensavamo già di possedere e conoscere.
Il suggerimento, per chi può, è di andare a vederla!