Nel tempo pasquale il Museo Diocesano di Milano, come ogni anno, propone un capolavoro dell’arte come spunto di riflessione.
Per la prima volta in città è stata esposta la Crocifissione di Masaccio, una tavola conservata al Museo e Real Bosco di Capodimonte a Napoli.
La prima sorpresa, entrando nelle sale, è il venire accolti da ragazzi di una scuola superiore che grazie all’ alternanza scuola lavoro ci offrono la possibilità di una visita accompagnata.
Anche quando si pensa di essere preparati, la ragazza che ci introduce riesce a dare una bella spolverata alle nostre reminiscenze scolastiche, come una ventata di primavera.
Masaccio è stato un innovatore del suo tempo, ha segnato un cambio di passo: ha accettato la sfida di lavorare su fondo oro, superando la bidimensionalità trecentesca, ha sperimentato la visione prospettica con quel corpo di Cristo che non si può capire in una visione frontale ma solo pensandolo con uno sguardo da sotto in su, così come doveva essere esposto a cinque metri da terra nella sua collocazione originale.
Una cosa che ci ha commosso è la naturalezza espressiva dei volti di Maria e di Giovanni: non sono particolarmente definiti eppure sprigionano dolore e sgomento, ma ancora più se possibile, la nostra attenzione è catturata dalle mani. Le mani di Maria che si stringono tanto da affondare le unghie nella carne, le mani di Giovanni, abituati come siamo da tanta iconografia, a vederlo appoggiato alla spalla di Gesù, si incrociano in un gesto sconsolato, come se non avessero più un posto dove posarsi. E poi, le mani alzate in grido della Maddalena ai piedi della croce. Non la vediamo in volto, si vede una veste rossa di spalle; eppure, la immaginiamo gridare di dolore (se pensiamo poi che quella figura è stata aggiunta dopo da Masaccio, forse la composizione gli sembrava troppo scarna e ora è una delle figure più riconoscibili e incredibili della storia dell’arte).
Andando via ci viene in mente un articolo che abbiamo letto in questi giorni sulla strana incapacità dell’Intelligenza Artificiale di rappresentare le mani. Ci sono state in giro in questi mesi parecchie foto create da IA e utilizzate per news di informazione che sono state “sbugiardate” proprio grazie all’impossibile composizione delle mani. Mani con sette dita, posizioni improbabili, troppo sottili o troppo lunghe, insomma un pasticcio. Nell’articolo si diceva che “Secondo Amelia Winger-Bearskin, artista e professoressa dell’Università della Florida che studia l’estetica dell’arte generata da intelligenze artificiali, il problema è che queste tecnologie non hanno ancora capito cos’è, in fin dei conti, “una mano”, e come si colleghi anatomicamente al corpo umano. L’IA «vede soltanto il modo in cui le mani sono rappresentate, ma le mani nelle immagini sono piuttosto articolate. Di solito sono piegate per afferrare qualcosa. Altre volte, sono strette attorno a un’altra persona». Le mani, insomma, fanno troppe cose nelle foto per essere riconosciute come un singolo elemento dall’intelligenza artificiale”
Ci arriveranno a fare le mani perfette, è solo questione di tempo ed è normale evoluzione.
Ma il punto forse non è la perfezione, ma quella capacità insostituibile del giovane pittore (poco più che ventenne) di trasmetterci attraverso il semplice gesto delle mani un contenuto umano, autentico, espresso con intensa e partecipata drammaticità.