Il cielo sopra Berlino (Wim Wenders, 1987) si apre con una voce fuoricampo che recita la poesia di Peter Handke, Elogio dell’infanzia:
Quando il bambino era bambino,
era l’epoca di queste domande:
perché io sono io, e perché non sei tu?
Perché “tu” è l’altro. Gli altri. Tutti quelli che non sono noi e di cui abbiamo sempre bisogno, che lo si ammetta o meno. È nella relazione con l’altro che sveliamo noi a noi stessi. Mai come quest’anno possiamo affermarlo con certezza. È di questi giorni il tam tam mediatico sul nuovo social che inizia a spopolare (ma vedremo nel tempo la tenuta del successo): Clubhouse. In sintesi, una stanza virtuale a cui si può partecipare solo su invito per discutere di molteplici argomenti; si può interagire unicamente attraverso scambi vocali, niente immagini, niente video. Solo voce. Una sorta di salotto aperto al dibattito, ma proibito a chi non è invitato. Se volete approfondirne funzionamento e origini trovate un articolo esaustivo qui
Non vogliamo, non avendone esperienza diretta ed essendo un po’ prematuro capire la bontà o meno dell’idea, formulare un giudizio. È evidente però che anche la nascita di Clubhouse faccia parte di un processo di accelerazione del digitale e delle sue potenzialità, in un momento in cui siamo stati obbligati a delegare ad esso molte delle nostre attività (lavorative o di tempo libero). Non c’è la possibilità di affollarsi in una sala pubblica a parlare di lavoro, arte, letteratura, politica, sport? Bene, possiamo farlo in un ambiente “altro”, che non avremmo immaginato solo qualche anno fa. Non ci guardiamo in faccia, non siamo seduti fianco a fianco, ma possiamo far sentire la nostra voce, ascoltare quella degli altri, in un confronto, si spera, costruttivo.
©Wim Wenders
Rimane il fatto che ci manca la fisicità. La connessione virtuale è una possibilità, ma lo è ancora di più nell’ottica di traghettare verso rapporti reali, solidi, concreti. La rete è interessante, apre scenari e opportunità, ma ancora più interessante è far sì che quella rete diventi un luogo di incontro reale. Nel lavoro ma anche e soprattutto negli ambiti che riguardano la nostra sfera di interessi, di attività che nutrono l’anima. Chiara Giaccardi, docente di Sociologia e Antropologia dei Media in Università Cattolica, scrive:
“La vita è una, e sta a noi mantenere un equilibrio tra le tante dimensioni della complessità: se teniamo al centro l’antropologico e non il tecnologico, il nostro desiderio di essere pienamente umani anziché la rincorsa all’innovazione tecnica, sarà possibile valorizzare le potenzialità enormi che il presente ci offre, e contenere i rischi che pure ci sono” (….)
“È sbagliato pensare a come erano belle le relazioni quando non c’era Facebook: quando per comunicare con qualcuno lontano dovevamo leccare il francobollo e attendere con ansia il postino. È invece doveroso pensare a come vivere bene le relazioni oggi, quando possiamo sia scrivere lettere con la stilografica sia digitare su una tastiera e cliccare «invia». Abbiamo di più, non di meno. E possiamo scegliere a seconda del valore e del significato delle relazioni, e delle circostanze”. (Abitare il presente, edizioni il Messaggero Padova)
Grande sfida quella di rendere abitabile e accogliente il nostro presente!